LA RESPONSABILITÀ PENALE DELL’AZIENDA PER GLI INFORTUNI DA COVID-19

infortuni sul lavoro coronavirus

Vero o falso problema? di Avv. Pasquale Morelli.

Avviata la fase 2, tra le varie criticità del momento al banco della discussione, emerge quella sollevata dal versante dei datori di lavoro che temono di doversi accollare rischi patrimoniali e giuridici importanti, nel caso in cui un proprio dipendente dovesse contrarre il virus covid-19 in occasione di lavoro.

Il tema è ampiamente discusso. L’art. 42 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, infatti, ha previsto una tutela infortunistica in favore dei lavoratori pubblici e privati rimasti contagiati dal SARS- CoV-2  in occasione di lavoro, garantendo assistenza anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro.

Va subito detto che detti eventi infortunistici, ove dovessero verificarsi, non incideranno sul premio assicurativo a carico del datore.

La disposizione, oggetto di chiarimento da parte dell’Inail con la circolare 13/2020, ha suscitato non poche polemiche e timori da parte dei datori di lavoro, soprattutto in considerazione della diffusa campagna mediatica di (dis)informazione che né è scaturita.

La pietra dello scandalo, sarebbe la regola della presunzione – semplice – che il contagio sia stato contratto in occasione di lavoro, per tutte le attività in ambito sanitario ed in tutti quegli ambienti in cui vi è un costante contatto con il pubblico/utenza.

Una tutela di siffatta portata non è innovativa nel nostro sistema, tant’è che Inail ha voluto chiarire la propria posizione anche per il covid-19, equiparando la causa virulenta a quella violenta.

Il manifestato timore è che, in caso di contagio di un lavoratore, il datore possa trovarsi coinvolto in un procedimento penale con ripercussioni anche in termini di responsabilità amministrativa dell’ente (d.lgs 231/2001). La regola della presunzione semplice, sopra accennata, chiamerebbe il datore a dover provare un’interruzione del nesso, di fatto impossibile viste le caratteristiche attualmente note del virus covid-19, una su tutte l’ubiquità.

Proprio per questo, invero e a scanso di equivoci, il datore non deve temere di dimostrare dove il lavoratore abbia contratto il virus, ma piuttosto dare prova di aver adeguatamente assunto le misure di sicurezza necessaria ad assicurare al lavoratore di poter esercitare la prestazione in un ambiente sicuro, rispettando così le norme di cui al d.lgs 81/2008 ed in generale quella di cui all’art. 2087 c.c.

La categoria datoriale, però, sospetta che, al già gravoso onere di predisporre una organizzazione aziendale in sicurezza, oggi se ne sommi uno ulteriore, dovuto al rischio pandemico, rispetto al quale (è inutile negarlo) si subisce un forte senso di impotenza.

La posizione di garanzia in capo al datore, quindi, rischia di divenire un fardello insostenibile o si tratta invero di una ordinaria problematica giuridica, che se correttamente approcciata può essere gestita senza particolari problemi?

Osservando il complesso di norme prevenzionistiche vigenti nel nostro sistema, ed osservando anche tutta la mole normativa emergenziale prodotta negli ultimi mesi, prende fondatamente piede l’idea che l’approccio alla salvaguardia della salute e della sicurezza negli ambienti di lavoro, non sia cambiata affatto e che anzi abbia conservato una coerenza di principi.

Ancor prima che la pandemia esplodesse, il datore di lavoro nella sua posizione di garanzia attribuitagli dalla legge, era tenuto ad osservare norme prevenzionistiche e ad organizzare in sicurezza l’azienda. A tale finalità, l’ausilio dei tecnici della sicurezza è sempre stato fondamentale.

Oggi più che mai, la conoscenza giuridica è imprescindibile. La responsabilità penale in capo al datore (semplificando, visto che la posizione di garanzia sussiste contestualmente in capo a più soggetti aziendali) ricorre allorquando un evento delittuoso prevedibile si è verificato, nonostante l’obbligo giuridico di impedirlo.

Il principio ricorrente, quindi, resta il medesimo, sia nell’epoca “pre” che “post” covid-19. Occorre, pertanto, impiegare misure atte ad organizzare in sicurezza l’azienda, formando ed informando i lavoratori, fornendo loro gli strumenti utili a poter svolgere le mansioni salvaguardando la propria salute e quella dei terzi (uso di DPI correttamente impiegati).

Tutto questo, però va assolto secondo quelle che sono le attuali conoscenze dell’esperienza e della tecnica, come previsto dalla noma di cui all’art. 2087 c.c. la quale, va letta anche in ragione di un limite di natura economica. Il datore, infatti, è chiamato ad impiegare quelle misure possibile e praticabili nell’azienda, senza dover inseguire il progresso tecnico e scientifico, rischiando di sostenere costi inappropriati nel costante senso di inadeguatezza rispetto alle possibili soluzioni di sicurezza suggerite dal mercato, ma di fatto non concretamente attuabili.

Questa, del resto, è l’idea che la giurisprudenza di legittimità e costituzionale condividono, dopo aver abbandonato quel concetto di responsabilità oggettiva, un tempo ampiamente diffuso, opportunamente sostituito da un nuovo criterio di valutazione ed individuazione della colpa del datore di lavoro nel non aver diligentemente predisposto misure di sicurezza idonee ad evitare occasioni di danno prevedibili, e non anche quelle imprevedibili (cass. n. 8911/2019).

Sebbene da sempre le organizzazioni aziendali si siano adeguate a standard internazionali attestati da organi di certificazione, al fine di poter ambire a quell’idea di salvaguardia rispetto a possibili incidenti sul lavoro, oggi l’idea che il rischio biologico da covid-19 costituisca una nuova e rinvigorita ipotesi di responsabilità oggettiva in capo al datore, rischia di diffondere un messaggio errato e pericoloso. L’azienda ha bisogno di essere rassicurata che la ripresa delle attività avvenga secondo condizioni precise e che una volta applicate, i rischi a cui potrebbe incorrere in caso di contagio dei lavoratori o di terzi, non comporteranno ripercussioni dalle conseguenze incalcolabili.

I protocolli che allegati al DPCM del 26 aprile 2020, infatti, costituiscono la misura  indispensabile per poter ritenere praticabile l’attività lavorativa in sicurezza, gestendo il rischio contagio in modo concreto e rispondente agli attuali standard di conoscenza tecnica e scientifica, economicamente ed efficacemente affrontabili dall’azienda.

È impensabile che il rischio biologico da covid-19 possa essere azzerato con un colpo di decreto o di protocollo, ma in maniera corretta, però, va affermato che l’applicazione delle misure ivi contemplate sono l’opportunità di salvaguardia del lavoratore e del datore, che per questo non incorre in ipotesi delittuose di cui al d.lgs 81/2008.

Il mondo dell’impresa, d’altro canto, chiede che venga predisposta una norma di esonero della responsabilità penale in caso di contagio di un lavoratore da covid-19, ovvero, di uno scudo penale, per tutti coloro i quali abbiano rispettato le (complesse) disposizioni contenute nei protocolli siglati tra sindacati e imprese il 14 marzo scorso, aggiornato poi al 24 aprile. Quest’ipotesi per quanto suggestiva, rimane complessa da praticare e senza garanzia di risultato, in quanto comporterebbe comunque una valutazione a monte della applicazione, corretta e compiuta del modello indicato nei protocolli di cui al DPCM del 26 aprile 2020.

Ecco quindi, che i principi di carattere generale sopra accennati, potrebbero invero essere efficace strumento di tutela del datore di lavoro e di strategia dell’organizzazione aziendale.

Una corretta compliance, infatti, sarebbe ancor più opportuna, utile ed economicamente vantaggiosa per le imprese che da qui al prossimo futuro sono chiamate a lavorare cogliendo tutti i cambiamenti che la pandemia ha imposto.


Avv. Pasquale Morelli
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