LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO DOPO L’ART. 29 BIS DEL DECRETO LIQUIDITA’

covi19 responsabilità del datore di lavoro

Esimente veramente necessaria? di Avv. Pasquale Morelli

Con la conversione del dl 23/2020 (decreto liquidità) in legge n. 40 del 5 giugno 2020, si conclude una diatriba iniziata quando con il decreto Cura Italia, venne introdotta la norma di cui all’art. 42, la quale si stabiliva che nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2)  in occasione di lavoro, al lavoratore è prevista una tutela infortunistica. Nell’arco di questi mesi si è diffusamente discusso del presunto pericolo di questa norma, giungendo talvolta a conclusioni affrettate e non contestualizzate nel sistema delle norme prevenzionistiche.

L’art. 29 bis del convertito decreto liquidità, con il riconoscimento dell’esimente da ogni responsabilità giuridica del datore di lavoro, pare abbia fugato ogni dubbio, ribadendo principi assodati, cristallizzandoli tutti in un’unica disposizione normativa.

Sin dalle prime battute del lockdown, cominciò a discutersi di un aspetto piuttosto tecnico in materia di salute e sicurezza sugli ambienti di lavoro, ovvero se procedere alla (ri)valutazione del rischio biologico e di conseguenza apportare modifiche ed aggiornamenti al documento di valutazione rischi (DVR) di cui al d.lgs 81/2008.

Il tema non è stato facile da approcciare e risolvere, specie da parte di chi intendeva quello da covid-19, non un rischio legato al lavoro, bensì esterno a qualsiasi attività (fatta la dovuta eccezione per tutto il settore sanitario ad esempio).

A tutt’oggi, nonostante al dibattito siano intervenute voci autorevoli, non si è giunti ancora ad una soluzione univoca, anzi, pare che la discussione abbia assunto i connotati della questione di principio ed ideologica, a discapito di una spiegazione tecnica e giuridica.

Si è infatti assistito alla paradossale situazione nella quale una presa di posizione, veniva poi dai fatti smentita, perché si rivelava inadeguata. È il caso, ma questa è una mera personale posizione, della dichiarata non necessità di apportare aggiornamenti al DVR, sebbene poi all’atto pratico, l’intera gestione ed organizzazione aziendale necessitava modifiche sensibili.  

Nel prosieguo dell’emergenza sanitaria, con la riapertura graduale delle attività, a gran voce è stata richiesta una soluzione pragmatica ad un problema che è poi esploso in tutta la sua grandezza con l’art. 42 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 e la successiva circolare Inail n. 13/2020  ovvero delle ipotizzate responsabilità giuridiche in capo al datore di lavoro e a tutte le posizioni di garanzia presenti in azienda (ai sensi del d.lgs 81/2008) nel caso in cui un lavoratore dovesse risultare positivo al covid-19.

Il mondo dell’impresa privata (sebbene la norma afferisca anche al lavoro pubblico) ha sollevato la protesta, temendo di doversi con ciò assumere oneri, costi e responsabilità abnormi, specie in un momento storico così complesso per l’intera economia mondiale.

La norma sopra citata, esplicata anche dalla circolare Inail, senza apportare alcuna innovazione al tradizionale sistema assicurativo, ha previsto che nei casi accertati (da medico certificatore) di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) del lavoratore in occasione di lavoro, l’evento verrà trattato come infortunio e non come malattia.

A seguito di questa disposizione, quindi, si è elevato un coro di proteste da parte del mondo imprenditoriale, erroneamente fondate, a mio avviso, sul timore che i datori di lavoro sarebbero incorsi sistematicamente in violazioni delle norme in materia di sicurezza e salute sul lavoro, con conseguente imputazione per lesioni o omicidio colposo (cfr. 589 e 590 cp, anche in relazione alle aggravanti ivi previste) ai danni del lavoratore, e questo in quanto sarebbe stato applicato un generalizzato sistema di presunzioni semplici, che avrebbe accollato al datore di lavoro l’onere di provare che il virus sia stato contratto fuori dall’ambiente lavorativo.

Il timore era quindi, quello di doversi difendere fornendo una prova impossibile da raggiungere, vista l’ubiquità e la rapidissima capacità di diffusione del virus.

Sempre in quest’ottica, non poteva non negarsi il timore di ripercussioni anche in ambito di responsabilità amministrativa degli enti, ai sensi del dlgs 231/2001.

Un contesto come quello sino ad ora descritto, ha trovato spazio per alimentarsi grazie anche ad informazioni giuridiche non sempre corrette ed in linea con i principi generali del diritto in materia di SSL.

La circolare dell’Inail n. 22 del 20 maggio 2020, intervenuta forse un po’ tardivamente, ha chiarito alcuni aspetti precedentemente fraintesi, di fatto ribadendo consolidate posizioni normative, citando recenti pronunce giurisprudenziali di legittimità[1].

Occorre, innanzitutto, chiarire che il criterio della presunzione semplice, vale solo per le attività sanitarie e per tutte quelle che hanno un costante contatto con il pubblico o con l’utenza. I lavoratori che non svolgono attività in siffatti ambienti, saranno tenuti loro a dare prova che il contagio è avvenuto in occasione del lavoro, cosa che alla luce delle caratteristiche del virus covid-19 e le diffusissime misure precauzionali adottate, diventerà alquanto complesso.

Il polverone sollevato da questa vicenda, può rapidamente abbassarsi se anziché alimentare la paura dell’agente invisibile ed intangibile, si analizzano le misure che i tecnici e la comunità scientifica stanno offrendo in questi mesi, e che attraverso la cospicua normativa emergenziale è stata emanata dal Governo.

Ecco che il datore di lavoro, sebbene non abbia (mai avuto) alcuna garanzia di poter azzerare il rischio infortunio in azienda, nel caso del rischio biologico da covid-19, ha oggi a sua disposizione una serie di informazioni, protocolli, linee guida ed istruzioni, che gli consentono di poter organizzare in sicurezza il luogo di lavoro, permettendo all’azienda di gestire il rischio biologico (anche) da covid-19.

Così operando, il datore non deve preoccuparsi di dimostrare dove il lavoratore abbia contratto il virus, ma soffermare l’attenzione su quali misure di prevenzione e sicurezza ha impiegato, cosicché da dare prova di avere rispettato le norme di cui al d.lgs 81/2008 ed in generale quella di cui all’art. 2087 c.c.

Il complesso delle norme prevenzionistiche vigenti nel nostro ordinamento, anche alla luce della recente normativa emergenziale, non è stato affatto stravolto, piuttosto si potrebbe dire che sotto taluni aspetti sono stati offerti ai datori di lavoro strumenti di immediata applicazione da contestualizzare nell’ambiente di lavoro (cfr. i protocolli allegati al dpcm 26 aprile 2020).

I soggetti che assumono ruoli di garanzia in azienda, invero, possono essere chiamati a rispondere di reati di lesione ed omicidio colposo (cfr. art. 589 e 590 cp, in considerazione delle aggravanti ivi previste) allorquando un evento delittuoso prevedibile si è verificato, nonostante l’obbligo giuridico di impedirlo con la formazione e l’informazione dei lavoratori, la fornitura di strumenti utili a poter svolgere le mansioni, tutelando la salute propria e quella dei terzi (ad esempio con l’uso di DPI correttamente impiegati).

L’imprenditore (nell’eccezione di cui al d.lgs 81/2008), però, non può pensare di dover inseguire strenuamente gli ultimi ritrovati della tecnica e della scienza in tema di sicurezza sul lavoro, pensando solo così di poter adempiere a quell’obbligo di garanzia dovuta ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Occorre, invero, ricordare che l’azienda è organizzata secondo principi di economicità, e questo dettaglio non può essere completamente escluso anche in riferimento al budget per spesa destinata alla sicurezza, diversamente da come avveniva nel passato, ad opera di una giurisprudenza granita sul tema, la quale riteneva che la sicurezza andasse sempre garantita prescindendo sempre e comunque dai costi.

Il datore, più correttamente, è chiamato ad impiegare quelle misure di prevenzione possibili e praticabili nell’azienda, nonché concretamente attuabili. Questa, del resto, è l’idea che la giurisprudenza di legittimità e costituzionale oggi sostengono, dopo aver superato quel concetto di responsabilità oggettiva, un tempo ampiamente diffuso, opportunamente sostituito da un nuovo criterio di valutazione ed individuazione della colpa del datore di lavoro nel non aver diligentemente predisposto misure di sicurezza idonee ad evitare occasioni di danno prevedibili, e non anche quelle imprevedibili (Cass. n. 8911/2019).

Agli standard internazionale di sicurezza, oggi, la maggior parte delle aziende sono grossomodo conformate (sebbene per le realtà più piccole questo comporti uno scoglio economico insormontabile) ma l’idea che il rischio biologico da covid-19 costituisca una nuova e rinvigorita ipotesi di responsabilità oggettiva in capo al datore, rischia di diffondere un messaggio errato e pericoloso.

L’azienda ha bisogno di essere rassicurata che la ripresa delle attività avvenga secondo condizioni precise e che una volta applicate, i rischi a cui potrebbe incorrere in caso di contagio dei lavoratori o di terzi, non comporteranno ripercussioni dalle conseguenze incalcolabili.

I protocolli allegati al DPCM del 26 aprile 2020, infatti, costituiscono la misura  indispensabile per poter ritenere praticabile l’attività lavorativa in sicurezza, gestendo il rischio contagio in modo concreto e rispondente agli attuali standard di conoscenza tecnica e scientifica, economicamente ed efficacemente affrontabili dall’azienda. È impensabile che il rischio biologico da covid-19 possa essere azzerato con un colpo di decreto o di protocollo, ma in maniera corretta, però, va affermato che l’applicazione delle misure ivi contemplate sono l’opportunità di salvaguardia del lavoratore e del datore, che per questo non incorre in ipotesi delittuose di cui al d.lgs 81/2008 e di conseguenza rischi di responsabilità amministrativa ex art. 231/2008.

È più che mai utile, in questo frangente, trarre spunto dalla giurisprudenza penale in materia di responsabilità da Legionellosi, per capire quali limiti e difficoltà debba superare l’accusa in dibattimento per giungere ad una condanna in capo al datore di lavoro, anche in ambito pubblico.

Potrebbe, perciò, risultare sostanzialmente inutile uno “scudo penale” per tutti coloro i quali abbiano rispettato le (complesse) disposizioni contenute nei protocolli siglati tra sindacati e imprese. Quest’ipotesi per quanto suggestiva, rimane difficile da praticare e senza garanzia di risultato, in quanto presupporrebbe comunque una valutazione a monte della applicazione, corretta e compiuta del modello indicato nei protocolli citati, ed in ogni caso delle misure prevenzionistiche per la sicurezza dell’ambiente di lavoro.

Ecco quindi, che i principi di carattere generale sopra accennati, potrebbero invero essere efficace strumento di tutela del datore di lavoro e di strategia dell’organizzazione aziendale.

Una corretta compliance, infatti, sarebbe ancor più opportuna, utile ed economicamente vantaggiosa per le imprese che da qui al prossimo futuro sono chiamate a lavorare cogliendo tutti i cambiamenti che la pandemia ha imposto. La norma contemplata all’art. 29 bis del dl 23/2020, convertita in legge 5/2020, né è la conferma, perché esclude che il datore di lavoro, pubblico o privato, possa incorrere in responsabilità, allorquando abbia rispettato le prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’art. 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste.


[1] La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che l’articolo 2087 cod. civ. non configura, infatti, un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore. Né può desumersi dall’indicata disposizione un obbligo assoluto in capo al datore di lavoro di rispettare ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno al fine di garantire così un ambiente di lavoro a “rischio zero” quando di per sé il pericolo di una lavorazione o di un’attrezzatura non sia eliminabile, neanche potendosi ragionevolmente pretendere l’adozione di strumenti atti a fronteggiare qualsiasi evenienza che sia fonte di pericolo per l’integrità psico-fisica del lavoratore, ciò in quanto, ove applicabile, avrebbe come conseguenza l’ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile[…]; non si può automaticamente presupporre, dal semplice verificarsi del danno, l’inadeguatezza delle misure di protezione adottate, ma è necessario, piuttosto, che la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto (Cass. n.3282/2020).



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